venerdì 28 febbraio 2014

Théodore Géricault

Caricato in data 21/dic/2010
Jean-Louis André Théodore Géricault, conocido como Théodore Géricault (Ruán, Francia, 26 de septiembre de 1791 - París, 26 de enero de 1824), fue un pintor francés. Prototipo de artista romántico, tuvo una vida corta y atormentada que dio lugar a varios mitos sobre él.

Jacques-Louis David Opere tra le più importanti dal 1769 al 1824

Ciao a tutti ho realizzato un nuovo video dedicato a uno dei più grandi artisti della storia dell'Arte Francese Jacques-Louis David (Parigi, 30 agosto 1748 – Bruxelles, 29 dicembre 1825)
Dopo una formazione compiuta in ambito tradizionale, ancora seguendo il gusto rococò, ottenne l'ambitissimo Prix de Rome che, nel 1775, gli permise di raggiungere l'Italia. Il quinquennale soggiorno romano fu per lui un periodo tormentato e difficile, poco soddisfacente dal punto di vista della produzione eppure ricco di esperienze fondamentali, come la scoperta dell'arte italiana (non solo l'antico, ma anche Michelangelo, Raffaello e Caravaggio) e, verosimilmente, la conoscenza degli scritti di Winckelmann, Mengs e altri teorici del Neoclassicismo.

Ciao Buona visione a tutti
da  LORETO PINOARTE

mercoledì 19 febbraio 2014

20140219 SCACCO AL RE DI A.R. CARRABBA

Scacco al Re

     Era il tramonto del primo agosto 1998: il riverbero, di quel cielo e di quel mare di porpora sulle mura del castello di Pizzo, sembrava vi rispecchiasse le tinte del tragico evento in cui, il 13 ottobre 1815, la viltà umana spegneva la vita e i sogni de «il più infelice dei sovrani», Gioacchino Murat [1].
     Tra quelle mura, in quell’atmosfera agostana, veniva presentata e commentata l’opera Scacco al Re di Giampiero Nisticò, uomo dei sogni come il protagonista del dramma storico, qui composto in forma teatrale, severamente aderente ai fatti storici.
     Sulla scia della tradizione letteraria manzoniana, l’Autore si ispira alla storia, al tragico evento del Murat nel tentativo di riconquistare il Regno di Napoli, da cui estendersi verso la realizzazione di quel sogno d’un regno italico unito e indipendente, come da Proclama di Rimini 30 marzo 1815 e, ancor prima, nel Proclama Reale, dal primo agosto 1808 a Napoli sul trono di quella «nazione (…) per ripristinare quell’antica gloria (…) la grandezza e la prosperità della patria nostra»[2].
     Come per la vicenda del Machiavelli, nell’Intervista, così è l’amore per la verità storica e per il debito di giustizia a ispirare Nisticò, coinvolgendone cuore e intelletto, quest’opera; l’ultima, dettata forse da inconscio presentimento (o segreta, dolorosa consapevolezza?) dell’approssimarsi della prematura fine del suo tempo, con i sogni ivi accarezzati, al pari del protagonista di questo dramma.
     L’opera è costituita da tre atti, con relative quattro scene e, ovviamente, da personaggi.
Il primo atto ha una sola scena, una località nella Corsica occidentale, alla periferia di Aiaccio. Delle altre tre scene, che coprono il secondo e il terzo atto, in terra di Calabria, una presenta Pizzo, con la marina, un piccolo centro coi suoi vicoli e la Parrera.
Le ultime due scene si estendono per l’intero terzo atto e avvengono entro le mura del castello, che da quel tragico evento diventa noto come “castello Murat”.
I personaggi: dei quattordici, soltanto uno è inventato dalla poetica fantasia dell’Autore, Paloma, nella duplice veste di una fanciulla zingara e di una nera signora. Degli altri tredici, veri, otto sono storicamente noti; i restanti cinque sono popolani, anonimi.
Dialoghi s’intrecciano tra loro e tra loro e il Murat, inframmezzati da soliloqui meditativi, durante i quali scorrono nella sua mente ricordi e immagini di luoghi e di avvenimenti: dai prati vicino Cahors durante l’infanzia, ai campi di battaglia nelle regioni d’Europa e d’Egitto; soliloqui del Murat che si trasformano in dialoghi con le voci fuori scena, singole e corali che, differentemente dai cori dei drammi manzoniani e delle tragedie greche, esprimono sentimenti e passioni, dell’orgoglio e del risentimento, del rimorso e del tormento: ha combattuto dall’età di venticinque anni, fianco a fianco a  Napoleone, spianandogli, con la sua spada alla testa della sua cavalleria, la via ai successi, a cominciare dal 18 Brumaio (9 Novembre)1799 irrompendo coi suoi sessanta granatieri a cavallo sul Direttorio, rovesciandolo e facendo diventare Napoleone Primo Console a vita e, via via con le conquiste dall’Europa all’Egitto, Imperatore.
Perciò, egli è creditore, non debitore, da Francia e da Napoleone, gli rammenta una voce femminile, perché quel regno che Napoleone gli ha donato lo aveva meritato, non cento ma mille volte sui campi di battaglia, come coralmente ricordano i canti militareschi dei suoi soldati che, similmente a «quei forti» dell’ “Adelchi”, «cantando giulive canzoni di guerra» e cavalcando «sui bruni corsieri / (…) di terra passarono in terra», «dall’ Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno / (…) da Scilla al Tanai»[3], oltre al già trionfale successo nella battaglia delle Piramidi il 21 luglio 1798 contro i Turchi e la cavalleria dei Mamelucchi comandati da Murad bey, strategicamente accerchiati e sconfitti dai fidi soldati e dalla cavalleria del Murat.
Le ragioni del suo risentimento vanno contro il grande Cognato, l’Austria e anche la storia: per l’obbedienza e il fascino che riscuoteva e suscitava verso i suoi soldati; per il tradito patto di reintegro sul trono di Napoli; per la omissione, sulle pagine storiche, del suo nome tra quelli dei protagonisti di quella storia, giacché questa solo «ei nomò», Napoleone, e non anche lui, Murat, perché egli si sente di far parte della storia e non ammette amnesie. Anche il Manzoni gli fa torto perché, commemorando nel “Cinque maggio” la morte del Bonaparte, celebrandone le imprese, le conquiste «dall’uno all’altro mar», come strumento della volontà e della potenza divina per quella «vasta orma» stampata, nega al «signor» Murat - inneggiato nel “Proclama di Rimini” come il «raggio / di nostra speme» e, per la conseguente battaglia di Tolentino contro l’Austria il 3 maggio 1815, l’alba del Risorgimento verso l’unità e l’indipendenza dell’Italia - qualsiasi debito di gratitudine e riconoscenza per aver (come confesserà al canonico Masdea entro il castello di Pizzo) consumato metà della sua vita, dal 24° al 48° anno di età, non per inseguire la (sua) gloria, ubriacatura che rende l’uomo schiavo anche della vanità, ma per la gloria di quelle bandiere non più sue, della Francia; e per aver inseguito un sogno (…) di essere re davvero, creduto che il popolo lo attendesse, ricordando quanto egli si è adoperato, in solo sette anni di regno, per farlo uscire dalla palude dell’ignoranza e dello sfruttamento: un sogno veramente  nobile. Questo avrebbe dovuto riconoscere e ricordare, il cattolico Manzoni, di colui che aveva dichiarato “io intendo morire da cristiano cattolico”, in prosieguo e conclusione di quel Proclama del 30 marzo 1815.
     Un’altra voce, durante quei soliloqui, tormenta la sua coscienza: quella del rimorso per l’errore di aver dato ascolto al cuore più che al cervello, al richiamo della Francia e di Napoleone, per soccorrerlo dopo la fuga dall’Elba, quasi dovesse sdebitarsi ( e di che?), anzicché restare a Napoli, a protezione del suo regno, obbedendo ai suoi doveri di re verso i suoi sudditi, che ora lo stavano attendendo sull’altra sponda del Tirreno.
     Ma, di quella terra sull’altra sponda, verso cui è pronto a dirigersi, ombre oscure nascondevano segni di ostilità: il volo basso dei gabbiani e il brontolio lugubre della risacca del mare in tempesta non sono presagi di fortuna, tutt’altro, sono presagi di sventura; lo sente e lo esorta “ Non partite, buon Re!” la Paloma, che gli compare la sera del 28 settembre 1815, in quella taverna alla periferia di Aiaccio, come una bella fanciulla dagli occhi di fuoco, ma dai lineamenti dolci che al Murat ricordano quelli di Letizia, la sua primogenita che l’attendeva a Trieste col resto della sua famiglia.
Fino a quel momento la fanciulla aveva creduto che i Re esistessero solo nelle fiabe, irraggiungibili; ma quello che ora le era innanzi è davvero un Re, gli dice Paloma, giovane zingara dai grandi occhi profondi: è l’unico personaggio poeticamente partorito dalla fantasiosa mente di Giampiero Nisticò, quale simbolo della personificazione del binomio profezia-superstizione. Gli compare come fanciulla-zingara, dapprima; come giovane donna, sempre bella, dopo, più avanti, odiata-amata, partecipe della creazione, che gli è stata sempre vicina, invisibile e che ci accompagna per mano sino alla fine del nostro tempo.
E al Murat, che spera di rivedere quella fanciulla, che ha vissuto nella realtà e non nel sogno momenti accanto ad un re, assicura che si rivedranno e la riconoscerà subito. Rifiutando con terrore le monete d’oro che vorrebbe regalarle, perché confermerebbero quella profezia Il vostro destino sta scritto in un pugno di sale, Pamela fugge via, singhiozzando.
     Un pugno di salemai sentito una profezia più scioccaleggende e profezie sono per me un vangelo - attenti al sale: sul dialogo tra Couraud e Barbarà su profezia e superstizione, interviene il Murat per tranquillizzarli, ché l’invito della zingara era rivolto soltanto a lui e dunque: Signori, via! Vogliamo giocare il destino ai dadi truccati dalla paura?
     La paura è sorella dell’ingratitudine, definisce il capitano Starace dialogando col Murat nel Castello di Pizzo; ed è questo il motivo per il quale i cittadini di Pizzo fanno a gara per testimoniare contro di lui mediante menzogne.
Dunque, saranno le menzogne le prove testimoniali per quella condanna scritta col sangue della paura. Paura sottolineata dal saggio consiglio d’una popolana al proprio marito: accontentati del Re che hai perché i Re cambiano, e se non cambi con loro, la perdi davvero la testa. Era una paura condita con un pugno di sale, mostrato da una strillante popolana contro Murat, tra quel popolo (…) bestia più ingrata ed ingorda che ci venderebbe come un pugno di sale, anche noi: è il giudizio del Trentacapilli esternato al suo sergente Muzio; ed entrambi, fregandosi le mani con soddisfazione, vedono vantaggi da quella grande giornata; e con una battuta, che nasconde verità ignorate e inedite, chiudono il secondo atto: non possiamo pretendere paga da soldato e vizi da generale; evidentemente allusivo a quel generale francese col vizio della truffa, come quella consumata in danno d’un commerciante d’olio di Pizzo, causa d’una vendetta trasversale e di odio antifrancese, che ebbero il Murat come capro espiatorio, assediato col suo seguito nel giardino della Parrera, ove attendeva quel cavallo promessogli da un suo ex ufficiale d’armata, il capitano Devoux, per poter proseguire verso Monteleone; venendone però impedito da quella schiera di venti persone armate e adunate dal Pellegrino, figlio del truffato, assieme ad una folla inferocita tacciata quale belva ingrata, ingorda proprio da quell’ uffiziale ( che ) animava il popolo alla rivolta contro Lui, il Murat: era proprio il compaesano Gregorio Trentacapilli, capitano di Gendarmeria, reduce dalla Sicilia, di transito a Pizzo in quanto destinato a Cosenza. Untuoso e profittatore, il Trentacapilli, agitatore di popolo, presuntuoso e ipocrita, che al Murat comunica, dopo il verdetto della Commissione Militare, che nella sua immensa benevolenza, il Sovrano Ferdinando onora i gradi militari del Murat con il privilegio di affidare a lui, Trentacapilli, il comando del picchetto di esecuzione, incarico che gli dispiace. Ma, Murat, con tranquilla e pungente ironia gli replica: perché vi dispiace? (…)  potreste passare alla storia per questa occasione che il destino vi offre su un piatto d’argento (…) Non avete colpa, così come non avete merito in questa vicenda. Murat gli impedirà quel privilegio, ottenendo di comandare e ordinare egli medesimo, con la propria voce, al plotone l’esecuzione.
     Con stizza, il canonico Masdea apostrofa il popolo di ipocrisia, vedendolo piangere a singhiozzi, all’uscita dalla chiesa Matrice di San Giorgio otto giorni dopo aver inseguito, furibondo, il Murat; popolo ingrato e ingordo, balordo ed ignorante.
     Il dramma di Gioacchino Murat, come concepito dal Nisticò, ricorda la figura d’un manzoniano drammatico uomo d’arme, dal cuore corazzato, ardito e vittorioso, Goffredo di Buglione, conte di Carmagnola: come lui il Murat, di fronte alla perfidia umana, ricusando un tribunale di uomini vili e indegni, si appella al tribunale della storia.
Entrambi gli eroi-guerrieri, come hanno saputo «guardar in viso la morte», così sanno andare incontro ad essa perché «non l’hanno / inventata gli uomini la morte», ma,  «dal cielo / essa viene» ove «c’è un Padre» in cui possono confidare la figlia «tenero fior» Matilde e la sposa Antonietta «dolente madre» che, quando «ormai l’ora è vicina / e convien lasciarsi», le consola e ne è consolato.[4]
Diversa consolazione il destino riserva al Murat che, nel l’ora fatale arrivata, non gli rimane che il conforto della religione col canonico Masdea, al quale dichiara la volontà di morire “cristiano cattolico”. Quindi, ripercorrendo tutta la sua vita, in nome di colui, Re dei re, che perdonò tutti …uomo … re, egli, Gioacchino Murat, perdona i suoi nemici (…) come uomo, ma come re non può. Prega il confessore di far pervenire la lettera col suo doloroso Addio alla cara moglie e ai quattro figli (che)  non avranno più il padre e per i quali invoca la benedizione di Dio.
La fortezza del suo cuore s’intenerisce nel momento in cui viene sopraffatto da profonda commozione, per il maggior dolore che prova in questo momento estremo di morire lontano dai miei figli: parole di penoso rimpianto che sembrano evocare il lamento della dantesca Francesca da Rimini «Nessun maggior dolore (…) del tempo (…) ne la miseria».[5]
Ciò scrive, mentre Pizzo veniva posto in uno «stato d’assedio», quasi di «terrore», con truppa pattugliante il paese, «cannoni e cavalleria», numerosi «ufficiali di diversi corpi d’armata»[6] squadrati attorno alla piazza e al castello in cui la Commissione Militare, riunita dalle «ore dieci antimeridiane del giorno tredici di questo mese di ottobre milleottocentoquindici nel Castello di Pizzo per giudicare l’arrestato generale francese Gioacchino Murat, qual pubblico nemico (…) all’unanimità lo condanna alla pena di morte», sentenza emessa «alle ore 5 pomeridiane»[7] di quello stesso giorno, venerdì 13 ottobre 1815.
     Esprimendo a padre Masdea il dolore immenso di non poterli riabbracciare, moglie e figli, e il rimorso di non aver dedicato il più della vita a loro, ansiosamente lo prega di promettergli di fare restituire il suo corpo ai figli e alla moglie.
Nonostante la promessa fatta all’ infelice in punto di morte e implorata al Trentacapilli, il perfido capitano ordinerà di affidare la sconnessa bara con il corpo del Murat all’ossario della chiesa di San Giorgio, ivi confondendosi le sue ossa con quelle di ignoti defunti tra «ossa indistinte», come quelle del Parini sperdute fra «ossa / col mozzo capo (che) il ladro / lasciò sul patibolo».[8]
     Opportunità estetico-lirica suggerisce posporre, come chiusa di questo dramma storico, psico-introspettivo, il dialogo tra due protagonisti che personificano l’intreccio tra realtà e fantasia, storia e invenzione, volontà umana e fatalità: Paloma e Gioacchino, nell’ultimo incontro, liricamente drammatico.
Pindaricamente volando sulle ali del tempo, da Aiaccio a Pizzo, Paloma appare entro le mura del castello al Murat, nelle sembianze di donna di bell’aspetto che, per i neri veli che la ricoprono, pur senza la falce, riconosce come colei che, alla fine del tempo di ognuno, si presenta a cogliere, particolarmente in questo caso, il suo trionfo contro chi l’aveva sempre sfidata, tante volte sui campi di battaglia.
      Nessun trionfo vuole cogliere la bella signora, che lascia cadere i neri veli per farsi riconoscere: è Paloma, come Murat stesso riconosce,  la ragazza corsa, che non l’aveva mai abbandonato – dice lei – sempre al suo fianco, anche durante la tempesta della infelice traversata marina. Gli ricorda che si sarebbero rivisti, gli rammenta la profezia. Gli dice ancora che, pur volendo, ella non ha il potere di modificare il destino, ma solo quello di volare sulle ali del tempo: ella, Morte, è sorella del Tempo, a lui s’accompagna, come Eros e Thanatos.
     La vita è sofferenza e, per essa sin dalla nascita si rischia la morte, perché «è rischio di morte il nascimento» rammenta il leopardiano “Pastore errante dell’Asia”.
La Morte fa parte della creazione, è come l’altra faccia della medaglia. Questa è la tua definitiva battaglia; egli volerà fuori delle mura del castello, sentenzierà Paloma-Morte al Murat che, rassegnato, morirà da re con i suoi sogni da re.
     Alla Paloma, che gli dice Quando sarai oltre i confini del tempo, potrai vedere se i tuoi sogni avrebbero potuto realizzarsi, Murat replica che I sogni non hanno un limite e neppure tu, Morte, puoi cancellarli.
Ma, conclude Paloma: Con i sogni tu hai giocato la tua partita nella scacchiera della vita, e hai perso…Questo è il mio scacco. Scacco al re.                                                                          

                       A.R. Carrabba                             




[1] )  E. Capialbi, Murat al Pizzo. Fine di un Re, Passafaro, Monteleone 1894.
[2] )  A.R. Carrabba, La politica economica e sociale di G. Murat nel Regno di Napoli, Settecolori, Vibo Valentia 1991.
[3] )  A. Manzoni, Adelchi, coro atto 3°; Cinque maggio, vv. 25-29, 49.
[4] A. Manzoni, Il Conte di Carmagnola, atto V, scene I e V.
[5] Dante, Inferno, V, vv. 121-123.
[6] Capialbi, op. cit., pp. 60, 64, 96-100.
[7] L. Gallois, Istoria di G. Murat o il Reame di Napoli, 1800-1815, Bonamini, Losanna 1849, p. 199.
[8] U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 75-77.