Scacco al Re
Era il tramonto del primo agosto 1998: il
riverbero, di quel cielo e di quel mare di porpora sulle mura del castello di
Pizzo, sembrava vi rispecchiasse le tinte del tragico evento in cui, il 13
ottobre 1815, la viltà umana spegneva la vita e i sogni de «il più infelice dei
sovrani», Gioacchino Murat
.
Tra quelle mura, in quell’atmosfera
agostana, veniva presentata e commentata l’opera Scacco al Re di Giampiero
Nisticò, uomo dei sogni come il protagonista del dramma storico, qui composto
in forma teatrale, severamente aderente ai fatti storici.
Sulla scia della tradizione letteraria
manzoniana, l’Autore si ispira alla storia, al tragico evento del Murat nel
tentativo di riconquistare il Regno di Napoli, da cui estendersi verso la
realizzazione di quel sogno d’un regno italico unito e indipendente, come da
Proclama di Rimini 30 marzo 1815 e, ancor prima, nel Proclama Reale, dal primo
agosto
1808 a
Napoli sul trono di quella «nazione (…) per ripristinare quell’antica gloria
(…) la grandezza e la prosperità della patria nostra»
.
Come per la vicenda del Machiavelli, nell’Intervista, così è l’amore per la
verità storica e per il debito di giustizia a ispirare Nisticò, coinvolgendone
cuore e intelletto, quest’opera; l’ultima, dettata forse da inconscio
presentimento (o segreta, dolorosa consapevolezza?) dell’approssimarsi della
prematura fine del suo tempo, con i sogni ivi accarezzati, al pari del
protagonista di questo dramma.
L’opera è costituita da tre atti, con
relative quattro scene e, ovviamente, da personaggi.
Il primo atto
ha una sola scena, una località nella Corsica occidentale, alla periferia di
Aiaccio. Delle altre tre scene, che coprono il secondo e il terzo atto, in
terra di Calabria, una presenta Pizzo, con la marina, un piccolo centro coi
suoi vicoli e la Parrera.
Le ultime due
scene si estendono per l’intero terzo atto e avvengono entro le mura del
castello, che da quel tragico evento diventa noto come “castello Murat”.
I personaggi:
dei quattordici, soltanto uno è inventato dalla poetica fantasia dell’Autore,
Paloma, nella duplice veste di una fanciulla zingara e di una nera signora.
Degli altri tredici, veri, otto sono storicamente noti; i restanti cinque sono
popolani, anonimi.
Dialoghi
s’intrecciano tra loro e tra loro e il Murat, inframmezzati da soliloqui
meditativi, durante i quali scorrono nella sua mente ricordi e immagini di
luoghi e di avvenimenti: dai prati vicino Cahors durante l’infanzia, ai campi
di battaglia nelle regioni d’Europa e d’Egitto; soliloqui del Murat che si
trasformano in dialoghi con le voci fuori scena, singole e corali che,
differentemente dai cori dei drammi manzoniani e delle tragedie greche,
esprimono sentimenti e passioni, dell’orgoglio e del risentimento, del rimorso
e del tormento: ha combattuto dall’età di venticinque anni, fianco a fianco a Napoleone, spianandogli, con la sua spada
alla testa della sua cavalleria, la via ai successi, a cominciare dal 18
Brumaio (9 Novembre)1799 irrompendo coi suoi sessanta granatieri a cavallo sul
Direttorio, rovesciandolo e facendo diventare Napoleone Primo Console a vita e,
via via con le conquiste dall’Europa all’Egitto, Imperatore.
Perciò, egli è
creditore, non debitore, da Francia e da
Napoleone, gli rammenta una
voce
femminile, perché quel
regno che
Napoleone gli ha
donato lo aveva
meritato, non cento ma
mille volte sui
campi di battaglia, come coralmente ricordano i canti militareschi dei suoi
soldati che, similmente a «quei forti» dell’ “Adelchi”, «cantando giulive
canzoni di guerra» e cavalcando «sui bruni corsieri / (…) di terra passarono in
terra», «dall’ Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno / (…) da Scilla al
Tanai»
,
oltre al già trionfale successo nella battaglia delle Piramidi il 21 luglio
1798 contro i Turchi e la cavalleria dei Mamelucchi comandati da Murad bey,
strategicamente accerchiati e sconfitti dai fidi soldati e dalla cavalleria del
Murat.
Le ragioni del
suo risentimento vanno contro il grande Cognato, l’Austria e anche la storia:
per l’obbedienza e il fascino che riscuoteva e suscitava verso i suoi soldati;
per il tradito patto di reintegro sul trono di Napoli; per la omissione, sulle
pagine storiche, del suo nome tra quelli dei protagonisti di quella storia,
giacché questa solo «ei nomò», Napoleone, e non anche lui, Murat, perché egli si sente di far parte della storia e non ammette amnesie. Anche il Manzoni gli fa torto perché, commemorando nel
“Cinque maggio” la morte del Bonaparte, celebrandone le imprese, le conquiste
«dall’uno all’altro mar», come strumento della volontà e della potenza divina per
quella «vasta orma» stampata, nega al «signor» Murat - inneggiato nel “Proclama
di Rimini” come il «raggio / di nostra speme» e, per la conseguente battaglia
di Tolentino contro l’Austria il 3 maggio 1815, l’alba del Risorgimento verso
l’unità e l’indipendenza dell’Italia - qualsiasi debito di gratitudine e
riconoscenza per aver (come confesserà al canonico Masdea entro il castello di
Pizzo) consumato metà della sua vita, dal 24° al 48° anno di età, non per inseguire la (sua) gloria, ubriacatura che rende l’uomo schiavo anche della vanità, ma
per la gloria di quelle bandiere non più sue,
della Francia; e per aver inseguito un
sogno (…) di essere re davvero,
creduto che il popolo lo attendesse,
ricordando quanto egli si è adoperato,
in solo sette anni di regno, per farlo uscire
dalla palude dell’ignoranza e dello sfruttamento: un sogno veramente nobile. Questo avrebbe dovuto riconoscere
e ricordare, il cattolico Manzoni, di colui che aveva dichiarato “io intendo morire
da cristiano cattolico”, in prosieguo e conclusione di quel Proclama del 30
marzo 1815.
Un’altra voce, durante quei soliloqui, tormenta la sua coscienza: quella del
rimorso per l’errore di aver dato ascolto al cuore più che al cervello,
al richiamo della Francia e di Napoleone, per soccorrerlo dopo la fuga
dall’Elba, quasi dovesse sdebitarsi ( e di che?), anzicché restare a Napoli, a
protezione del suo regno, obbedendo ai suoi doveri di re verso i suoi sudditi,
che ora lo stavano attendendo sull’altra sponda del Tirreno.
Ma, di quella terra sull’altra sponda,
verso cui è pronto a dirigersi, ombre oscure nascondevano segni di ostilità: il
volo basso dei gabbiani e il brontolio lugubre della risacca del mare in
tempesta non sono presagi di fortuna, tutt’altro, sono presagi di sventura;
lo sente e lo esorta “ Non partite, buon Re!” la Paloma, che gli compare la
sera del 28 settembre 1815,
in quella taverna alla periferia di Aiaccio, come una bella fanciulla dagli occhi di fuoco, ma
dai lineamenti dolci che al Murat ricordano quelli di Letizia, la sua
primogenita che l’attendeva a Trieste col resto della sua famiglia.
Fino a quel
momento la fanciulla aveva creduto che i Re esistessero solo nelle fiabe,
irraggiungibili; ma quello che ora le era innanzi è davvero un Re, gli dice
Paloma, giovane zingara dai grandi occhi
profondi: è l’unico personaggio poeticamente partorito dalla fantasiosa
mente di Giampiero Nisticò, quale simbolo della personificazione del binomio
profezia-superstizione. Gli compare come fanciulla-zingara, dapprima; come
giovane donna, sempre bella, dopo, più avanti, odiata-amata, partecipe della
creazione, che gli è stata sempre vicina, invisibile e che ci accompagna per
mano sino alla fine del nostro tempo.
E al Murat, che
spera di rivedere quella fanciulla, che ha vissuto nella realtà e non nel sogno
momenti accanto ad un re, assicura che si rivedranno e la riconoscerà subito. Rifiutando
con terrore le monete d’oro che vorrebbe regalarle, perché confermerebbero
quella profezia Il vostro destino sta scritto in un pugno di sale, Pamela fugge via, singhiozzando.
Un
pugno di sale – mai sentito una
profezia più sciocca – leggende e
profezie sono per me un vangelo - attenti
al sale: sul dialogo tra Couraud e Barbarà su profezia e superstizione,
interviene il Murat per tranquillizzarli, ché l’invito della zingara era
rivolto soltanto a lui e dunque: Signori,
via! Vogliamo giocare il destino ai dadi truccati dalla paura?
La paura è sorella
dell’ingratitudine, definisce il capitano Starace dialogando col Murat nel
Castello di Pizzo; ed è questo il motivo per il quale i cittadini di Pizzo
fanno a gara per testimoniare contro di lui mediante menzogne.
Dunque, saranno
le menzogne le prove testimoniali per quella condanna scritta col sangue della paura.
Paura sottolineata dal saggio consiglio d’una popolana al proprio marito: accontentati del Re che hai perché i Re cambiano, e se non cambi con loro, la
perdi davvero la testa. Era una paura condita con un pugno di sale,
mostrato da una strillante popolana contro Murat, tra quel popolo (…) bestia più ingrata
ed ingorda che ci venderebbe come un
pugno di sale, anche noi: è il
giudizio del Trentacapilli esternato al suo sergente Muzio; ed entrambi, fregandosi le mani con soddisfazione,
vedono vantaggi da quella grande giornata;
e con una battuta, che nasconde verità ignorate e inedite, chiudono il secondo
atto: non possiamo pretendere paga da
soldato e vizi da generale; evidentemente allusivo a quel generale francese
col vizio della truffa, come quella consumata in danno d’un commerciante d’olio
di Pizzo, causa d’una vendetta trasversale e di odio antifrancese, che ebbero
il Murat come capro espiatorio, assediato col suo seguito nel giardino della
Parrera, ove attendeva quel cavallo promessogli da un suo ex ufficiale
d’armata, il capitano Devoux, per poter proseguire verso Monteleone; venendone
però impedito da quella schiera di venti persone armate e adunate dal Pellegrino,
figlio del truffato, assieme ad una folla inferocita tacciata quale belva ingrata, ingorda proprio da quell’
uffiziale ( che ) animava il popolo alla rivolta contro Lui,
il Murat: era proprio il compaesano
Gregorio Trentacapilli, capitano di Gendarmeria, reduce dalla Sicilia, di
transito a Pizzo in quanto destinato a Cosenza. Untuoso e profittatore, il
Trentacapilli, agitatore di popolo, presuntuoso e ipocrita, che al Murat
comunica, dopo il verdetto della Commissione Militare, che nella sua immensa benevolenza, il Sovrano Ferdinando onora i gradi militari del Murat con il privilegio di affidare a lui,
Trentacapilli, il comando del picchetto
di esecuzione, incarico che gli dispiace.
Ma, Murat, con tranquilla e pungente ironia gli replica: perché vi dispiace? (…) potreste passare alla storia per questa
occasione che il destino vi offre su un piatto d’argento (…) Non avete colpa, così come non avete merito
in questa vicenda. Murat gli impedirà quel privilegio, ottenendo di comandare e ordinare egli medesimo, con la
propria voce, al plotone l’esecuzione.
Con stizza,
il canonico Masdea apostrofa il popolo di ipocrisia, vedendolo piangere a singhiozzi, all’uscita dalla
chiesa Matrice di San Giorgio otto giorni dopo aver inseguito, furibondo, il Murat; popolo ingrato e ingordo, balordo ed
ignorante.
Il dramma di Gioacchino Murat, come
concepito dal Nisticò, ricorda la figura d’un manzoniano drammatico uomo
d’arme, dal cuore corazzato, ardito e vittorioso, Goffredo di Buglione, conte
di Carmagnola: come lui il Murat, di fronte alla perfidia umana, ricusando un
tribunale di uomini vili e indegni, si appella al tribunale della storia.
Entrambi gli
eroi-guerrieri, come hanno saputo «guardar in viso la morte», così sanno andare
incontro ad essa perché «non l’hanno / inventata gli uomini la morte», ma, «dal cielo / essa viene» ove «c’è un Padre»
in cui possono confidare la figlia «tenero fior» Matilde e la sposa Antonietta
«dolente madre» che, quando «ormai l’ora è vicina / e convien lasciarsi», le
consola e ne è consolato.
Diversa
consolazione il destino riserva al Murat che, nel l’ora fatale arrivata, non gli rimane che il conforto della
religione col canonico Masdea, al quale dichiara la volontà di morire
“cristiano cattolico”. Quindi, ripercorrendo tutta la sua vita, in nome di colui, Re dei re, che perdonò tutti
…uomo … re, egli, Gioacchino Murat, perdona i suoi nemici (…) come uomo, ma come
re non può. Prega il confessore di far pervenire la lettera col suo
doloroso Addio alla cara moglie e ai quattro figli (che) non avranno più il padre e
per i quali invoca la benedizione di Dio.
La fortezza del
suo cuore s’intenerisce nel momento in cui viene sopraffatto da profonda
commozione, per il
maggior dolore che
prova
in questo momento estremo di morire
lontano dai miei figli: parole di penoso rimpianto che sembrano evocare il
lamento della dantesca Francesca da Rimini «Nessun maggior dolore (…) del tempo
(…) ne la miseria».
Ciò scrive,
mentre Pizzo veniva posto in uno «stato d’assedio», quasi di «terrore», con
truppa pattugliante il paese, «cannoni e cavalleria», numerosi «ufficiali di
diversi corpi d’armata»
squadrati attorno alla piazza e al castello in cui
la Commissione Militare,
riunita dalle «ore dieci antimeridiane del giorno tredici di questo mese di
ottobre milleottocentoquindici nel Castello di Pizzo per giudicare l’arrestato
generale francese Gioacchino Murat, qual pubblico nemico (…) all’unanimità lo
condanna alla pena di morte», sentenza emessa «alle ore 5 pomeridiane»
di
quello stesso giorno, venerdì 13 ottobre 1815.
Esprimendo a padre Masdea il dolore
immenso di non poterli riabbracciare,
moglie e figli, e il rimorso di non aver
dedicato il più della vita a loro, ansiosamente lo prega di promettergli di
fare restituire il suo corpo ai figli e alla moglie.
Nonostante la
promessa fatta all’
infelice in punto di morte e implorata al Trentacapilli, il perfido
capitano ordinerà di affidare la sconnessa bara con il corpo del Murat a
ll’ossario della chiesa di San Giorgio,
ivi confondendosi le sue ossa con quelle di ignoti defunti tra «ossa
indistinte», come quelle del Parini sperdute fra «ossa / col mozzo capo (che)
il ladro / lasciò sul patibolo».
Opportunità estetico-lirica suggerisce
posporre, come chiusa di questo dramma storico, psico-introspettivo, il dialogo
tra due protagonisti che personificano l’intreccio tra realtà e fantasia,
storia e invenzione, volontà umana e fatalità: Paloma e Gioacchino, nell’ultimo
incontro, liricamente drammatico.
Pindaricamente
volando sulle ali del tempo, da
Aiaccio a Pizzo, Paloma appare entro le mura del castello al Murat, nelle
sembianze di donna di bell’aspetto che, per i neri veli che la ricoprono, pur
senza la falce, riconosce come colei
che, alla fine del tempo di ognuno, si presenta a cogliere, particolarmente in
questo caso, il suo trionfo contro chi l’aveva sempre sfidata, tante volte sui campi di battaglia.
Nessun trionfo vuole cogliere la bella
signora, che lascia cadere i neri veli per farsi riconoscere: è Paloma, come
Murat stesso riconosce, la ragazza corsa, che non l’aveva mai
abbandonato – dice lei – sempre al suo fianco, anche durante la tempesta della infelice traversata marina. Gli
ricorda che si sarebbero rivisti, gli rammenta la profezia. Gli dice ancora che, pur volendo, ella non ha il potere di modificare il destino,
ma solo quello di volare sulle ali del
tempo: ella, Morte, è sorella del Tempo, a lui s’accompagna, come Eros e Thanatos.
La vita è sofferenza e, per essa sin dalla nascita si rischia la morte,
perché «è rischio di morte il nascimento» rammenta il leopardiano “Pastore
errante dell’Asia”.
La Morte fa parte della
creazione, è come l’altra faccia della
medaglia. Questa è la tua definitiva battaglia; egli volerà fuori delle
mura del castello, sentenzierà Paloma-Morte al Murat che, rassegnato, morirà da
re con i suoi sogni da re.
Alla Paloma, che gli dice Quando sarai oltre i confini del tempo,
potrai vedere se i tuoi sogni avrebbero potuto realizzarsi, Murat replica
che I sogni non hanno un limite e neppure
tu, Morte, puoi cancellarli.
Ma, conclude
Paloma: Con i sogni tu hai giocato la tua
partita nella scacchiera della vita, e hai perso…Questo è il mio scacco. Scacco
al re.
A.R. Carrabba